mercoledì 9 gennaio 2008

I clienti...





Gli antenati dell'happy hour

Il Bitter del Camparino si vantava di essere diverso dagli altri, tre i segreti della mescita: il bicchiere lungo e sottile evitava la dispersione dell'aroma, fresco al punto giusto (quando il ghiaccio era ancora portato a spalla ai vari caffè), e spruzzato di acqua gasata, ma solo in superficie, per assaporare le tonalità dalla più leggera alla più intensa. Si deve invece a Tilde Beduschi, moglie di Ettore Zucca, pioniere dell'azienda che porta il suo nome, l'invenzione del famoso rabarbaro, da una ricetta che il medico le aveva prescritto per alleviare i disturbi digestivi. Carlo Zucca, fondatore del marchio, comincia la produzione industriale della bevanda, che diventa il simbolo della Milano raffinata. Due sono gli aperitivi doc meneghini, il Zucca e selz, a base di Rabarbaro Zucca, ghiaccio tritato, selz e scorza d'arancia; ed il classico shekerato: Zucca, liquore di vaniglia e ghiaccio.

Milano da bere

L'aperitivo a Milano è diventato un rito sociale. C'è chi lo pratica perché è «in» e chi invece ne approfitta per scroccare la cena , a spizzichi e bocconi, al costo di una birra.C'era una volta il bar sport. E c'erano le vecchie trattorie, le bocciofile e anche i «trani» dove si mangiava e beveva con poche lire. I bar di Milano: riconoscibilissimi perché divulgatori del culto tutto meneghino dell'aperitivo, altrimenti conosciuto come happy hour, tanto celebre da diventare lo slogan della Milano da Bere.IL Bar Magenta è must dell'ora dell'aperitivo, è il simbolo indiscusso della «Milano da Bere», per milanesi mondani, o presunti tale, di tutte le età. L'ambiente, liberty, ha resistito per oltre un secolo a mode e tendenze: sono rimasti intatti il nome, il bancone circolare ed i soffitti in legno. L'Atomic Bar ha aperto l'era dei locali stravaganti, l'arredamento è fatto di pezzi originali anni Cinquanta e Sessanta, provenienti da un famoso hotel di Saint Moritz. Da anni all'avanguardia, rimane un ambiente informale dove si incontrano artisti e designers. Musica di tendenza e musicisti habitué, come i Cult, Nick Cave, The Hole e Barry White che ha confessato «Non ho mai visto niente di simile».

Zucca ritrovo di artisti e letterari

RITROVO DI ARTISTI E LETTERATI - Al Campari (che in seguito diventerà Gran Bar Zucca) si respira la storia: è il punto di riferimento per i letterati, gli artisti, i musicisti, e, seguono a ruota, turisti, borghesi vecchio stampo, la Milano-bene. I giovani Arrigo Boito, Giuseppe Giacosa, Segantini, Emilio De Marchi e Felice Cavallotti si incontravano qui con la cultura milanese a bere Bitter. Frequentatori erano Attilio Manzoni, fondatore della prima agenzia di pubblicità, che all'epoca raccoglieva necrologi a pagamento per «Il Secolo» e Giovan Battista Pirelli che ha appena aperto il suo stabilimento di tubi e cinghie di gomma. Era già il locale prediletto di Verdi e Toscanini. Dudovich e Carrà erano clienti assidui delle ore notturne e, nientemeno, il re Umberto I aveva una predilezione per il suo caffè, considerato il più buono della città. La schiera di illustri frequentatori vanta anche Boccioni, che ha dato fama immortale al locale, ritraendolo nel 1910 in «Rissa in Galleria». Zucca ha precorso i tempi quando, all'inizio dello scorso secolo, ha installato un impianto di refrigerazione nelle cantine, per regalare ai clienti il piacere di un selz ghiacciato al punto giusto.

Montale ispira De Chirico.



Se la salvezza in Montale è possibile grazie alla speranza riposta nell’attesa, forse vana, del miracolo, nelle tele di De Chirico ci sono, nei neutri spiazzi di città-fantasma, figure umane in attesa tra oggetti più impensabili, improbabili negli accostamenti in cui vengono proposti e ingigantiti fino ad occupare tutto lo spazio disponibile (l’esempio più clamoroso resta Canto d’Amore, dipinto nel 1914, nel quale un enorme guanto di gomma è appeso accanto alla testa smisurata del classicissimo Apollo del Belvedere): la meraviglia si compie così semplicemente nella messa a nudo del non-senso e dell’inquietudine che permea il mondo.
L’altro modo per ovviare all’angoscia dell’esistere per Montale consiste, si diceva, nell’ignorare la Verità e il dolore della vita, evitando di fermarsi a riflettere: “Bene non seppi, fuori del prodigio/che schiude la divina Indifferenza: /era la statua nella sonnolenza/del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.” (In “Spesso il male di vivere ho incontrato”)La divina indifferenza è esattamente quella rappresentata nelle statue antiche accampate negli spiazzi cittadini tanto cari a De Chirico: è l’ignara ieraticità del freddo marmo, l’insensibilità assoluta, la somma distanza dai mali del mondo. Neutrali sono anche Le Muse inquietanti, di De Chirico, da cui il titolo dell’omonimo quadro del 1916, anonime chimere a metà tra scultura e manichino, sovrane di una dimensione allucinata e immobile, senza spazio e senza tempo.
La tranquilla “incoscienza” incarnata da elementi naturali quali il sole a mezzodì, la nuvola vagante e il falco alto nel cielo, è un bene che il poeta Montale vorrebbe possedere, ma che davvero appartiene solo, tra gli esseri umani, a coloro i quali, beatamente ottusi, i rifiutano di porsi domande, di arrestare per un attimo il proprio vivere quotidiano per tentare una spiegazione ai perché dell’esistenza e ai fenomeni del mondo guardati nell’ovvietà del loro “esserci”.
Da una parte c’è l’uomo che se ne va sicuro, solitario che può avvalersi della divina indifferenza, dall’altra parte c’è il poeta che è condannato alla ricerca del senso della vita e a dipanare l’intricato filo che tiene insieme le mondane apparenze.
Nel 1916, lo stesso anno del dipinto “Le Muse inquietanti” di De Chirico, Montale scrive la poesia:
“Meriggiare pallido e assorto/presso un rovente muro l’orto,/ascoltare tra i pruni e gli sterpi/schiocchi di merli, frusci di serpi./E andando nel sole che abbaglia…”
(Scritta nel 1916, fa parte della raccolta di poesie dal titolo "Ossi di seppia" che nel 1925 fu poi pubblicata) L’effetto straniante, destabilizzante della luce è un altro elemento che accomuna l’opera metafisica alla prima poesia montaliana: le piazze di De Chirico sono permeate da una fonte luminosa innaturale, enigmatica, che produce ombre oblunghe difficilmente giustificabili a partire dalle sole tradizionali convenzioni prospettiche. Percorrendo idealmente gli illusori contorni di quelle strane ombre, si può anche scorgere, perduta tra le architetture, la corsa insensata della palla sfuggita al ragazzino protagonista dei versi forse più schietti e amari lasciati dal poeta:
“Ma nulla paga il pianto del bambino/ a cui fugge il pallone tra le case”, in “Felicità raggiunta, si cammina”.
Il male di vivere di cui parla Montale indica la condizione esistenziale assurda e dolorosa dell'uomo, che si trova a vivere in un ambiente ostile e senza poter dare una risposta alle ragioni incomprensibili dell'esistenza, credendo erroneamente che la realtà è quella che si vede e non qualcosa di più misterioso ed occulto, cui l'uomo non ha accesso, se non in rari bagliori, in occasionali "stati di grazia". Tale concetto anche De Chirico lo evidenzia nella sua concettualizzazione dell’arte metafisica che deve cogliere il mistero delle cose, che l’uomo non può svelare con la riflessione umana ma che può essere rivelato talvolta, raramente all’uomo in certi momenti di intuizione e che il pittore fissa sulla tela.Questo "male di vivere" di cui parla Montale nelle sue poesie si concretizza in alcune immagini di chiaro sapore metafisico: paesaggi accecati dal sole, aride pietraie riarse dal sole, la sonnolenza del caldo meriggio estivo, il senso di una vita soffocante ed incomprensibile, senza poter mai approdare ad alcuna certezza o "verità".
Vivere è come camminare accanto ad un muro invalicabile con in cima cocci aguzzi di bottiglia, quindi non poter superare quella barriera , che ci impedisce di guardare oltre e cogliere, forse, l'autentico senso dell'esistenza. Il riferimento di Montale al muro come simbolo dell’aridità della vita e delle sue difficoltà, appare anche in molte tele di De Chirico a formare pareti, lunghi muri di mattoni, aride architetture razionali allusione simbolica al mistero e al male di vivere nel sociale.
E’ chiaro che dietro l'apparente naturalismo della poesia di Montale si nasconde una valenza simbolica e metafisica, per cui i vari oggetti descritti assumono un significato simbolico. L'unico rimedio contro il male di vivere, per non lasciarsi travolgere dalla banalità di una vita inspiegabile ed assurda è la divina indifferenza, cioè la capacità di estraniarsi dall'assurdo della vita; non significa rifuggire dalla vita, non assumersi la responsabilità del vivere, quanto rimanere distaccati e lucidi, con animo forte e "stoico" come una statua di De Chirico tranquilla e serena di fronte alle lusinghe di una vita ed una società banali ed insensate.
In altre parole significa assumersi i compiti e doveri di cittadino, impegnarsi per il progetto di una società più libera e migliore, ma con distacco emotivo e lucidità interiore, senza lasciarsi coinvolgere emotivamente cadendo nell’angoscia disperata. Vi sono tre correlativi oggettivi, che indicano in modo chiaro tale atteggiamento di indifferenza: il falco, la nuvola, la statua nella sonnolenza del meriggio. In queste tre immagini è evidente il guardare la vita dall'alto, con distacco sia per Montale che per De Chirico.
L'opera d'arte metafisica è quanto all'aspetto serena; dà però l'impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e che altri segni debbano subentrare sul quadrato della tela. Così come la superficie piatta di un oceano perfettamente calmo ci inquieta non tanto per l'idea della distanza chilometrica che sta tra noi e il suo fondo quanto per tutto lo sconosciuto che si cela in quel fondo. Se così non fosse l'idea dello spazio ci darebbe solo la sensazione della vertigine come quando ci troviamo a grandi altezze.
Attualizzando le opere di Montale e di De Chirico, molto distanti cronologicamente da noi possiamo pensare che sono vive ancora oggi in quanto il male di vivere, che per Montale era la frenesia della sua epoca, richiama alla nostra mente la modernità, l’attualità del mondo di oggi nella frenesia e nella confusione della nostra società e nel disagio di molti giovani e meno giovani di fronte alla propria vita. Questo tema si riaggancia ad un filo rosso che ci porta alla poesia del Leopardi, ma la poesia di Montale è di tipo filosofico, metafisico.

domenica 25 novembre 2007










Zucca in Galleria

Il locale sito sullo spigolo occidentale dell’ingresso
a sud della Galleria è stato chiamato
nel tempo in molti modi: Camparino, Zucca
in Galleria, Caffè Miani. I nomi sono conseguenza
delle cose e il loro avvicendamento è
dunque segno di un mutamento dell’essenza
stessa delle cose. Oggi, entrando attraverso il
locale reso celebre dal lavoro di Quarti,
Mazzucotelli, D’Andrea, si passa in nuove sale
che, pur richiamandone l’impronta stilistica originaria,
sono il riadattamento di spazi occupati
un tempo da altri esercizi commerciali le cui
storie sono state cancellate. Tutto ciò è naturale
in una dinamica commerciale. Nomi e cose
subiscono una continua metamorfosi intorno a
un nodo concettuale che rimane tuttavia saldo:
quel luogo è stato e resta un punto di riferimento
per i milanesi; la capacità di attrazione che
esso ha esercitato nel passato perdura perché
nuovi soggetti ne subiscono il fascino e accettano
la sfida di interpretarne modernamente il
ruolo. Il racconto che abbiamo raccolto da Teresa Miani e dal marito Orlando Chiari non
è la storia del Camparino (del resto documentata con maggior respiro da autori come
Guido Vergani e dallo stesso Orlando Chiari, Campari, Zucca, Miani: 135 anni di storia
milanese, Milano 2001, pubblicazione in distribuzione ai clienti presso il locale), ma è la
testimonianza di una di queste felici immedesimazioni che fanno di Milano una metropoli
capace di interpretare dinamicamente la tradizione.
Il perno di questa narrazione ruota intorno alla vicenda e alla personalità di Guglielmo
Miani, padre di Teresa, e della sua famiglia. Nel 1922, all’età di 17 anni, Guglielmo
arrivò a Milano giungendo da Andria, dopo un breve soggiorno a Roma. Con in tasca
una lettera di presentazione del suo vescovo, si presentò presso l’ufficio di collocamento
dichiarando di “saper fare maniche e collo”, cioè di essere sarto provetto. Venne inviato
subito da Bressan, in corso Vittorio Emanuele, ma qui, alla fine della giornata, gli dissero
che, nonostante la buona volontà, doveva tornare in periferia ad imparare. A Bressan
Miani promise semplicemente che lui in corso Vittorio Emanuele ci sarebbe tornato.
Iniziò dunque altrove il proprio apprendistato e, dopo non molti anni, aprì un laboratorio
di sartoria in vicolo dei Tignoni (l’attuale via Pisoni). Nel 1929 si sposò con Ginevra e
dopo pochi anni nacque Teresa seguita da Riccardo, Adriana e Iris. Nel 1939 l’espansione
del lavoro lo portò ad ampliare l’attività e ad aprire un negozio per la vendita di
tessuti in via Manzoni. Ma nel ‘42 un furto di grande entità lo spogliò di tutto. Teresa
ricorda come i parenti suggerissero di chiedere la procedura del concordato, ma
Guglielmo rifiutò: preferì ricominciare da zero e, contando sul sostegno delle persone
che lo stimavano (importantissimo fu il rapporto
con il Credito Italiano che gli diede fiducia)
rimise in piedi l’attività.
La famiglia era per Guglielmo sede di affetti,
ma anche parte integrante del proprio disegno
imprenditoriale e, al tempo stesso, l’impresa
era luogo di formazione per i figli e veicolo
di legittimazione sociale dell’intera famiglia.
Verificata l’infedeltà di alcuni collaboratori
sorpresi a cedere tessuti in conto merci,
Guglielmo volle che i figli, appena terminate
le medie inferiori, fossero coinvolti in azienda.
Già nel 1936 aveva avviato una produzione
di impermeabili, i trench coat chiari che ave-
Il commercio “racconta” Milano
Iniziativa realizzata in collaborazione con il Centro per la cultura d’impresa
vano preso piede in Inghilterra. Teresa racconta che il padre e la madre presero un
impermeabile, lo smontarono per capire com’era fatto e quindi si misero d’impegno
a produrli. Volendo trovare un marchio per il nuovo prodotto, Guglielmo non si rivolse
a un’agenzia di pubblicità, ma a don Alfieri, il sacerdote che lo aveva sposato.
L’idea di partenza era quella del gabbiano le cui penne non si bagnano neanche in
acqua. Gabbiano era però un nome poco evocativo e il fascismo impediva il ricorso
a lemmi stranieri: di qui l’idea del religioso di aggirare l’ostacolo attraverso la traduzione
latina (larus).
Nel dopoguerra il dinamismo di Guglielmo Miani ebbe modo di espandersi grazie al
clima di apertura e al miracolo economico di cui Milano fu nel Paese una delle locomotive.
Accanto al negozio di via Manzoni altri negozi Larus fecero la loro comparsa
in Galleria, in corso Vittorio Emanuele (la promessa al sarto Bressan fu così
mantenuta) e in via Montenapoleone. L’attività economica era tuttavia un aspetto di
un più intenso dinamismo che faceva di Miani il promotore di iniziative rivolte alla
socialità milanese. L’entusiasmo che egli nutriva ad un tempo per l’Inghilterra e per
la città si espresse in iniziative quali l’installazione in Galleria delle cabine telefoniche
rosse fatte arrivare espressamente da Londra e messe a disposizione dei
bambini per chiedere i regali a Babbo Natale; il dono di stoffe ai vigili milanesi; l’invito
rivolto ai suonatori di cornamuse scozzesi e ai town craiers perché venissero a
Milano rispettivamente a suonare e a strillare le notizie locali.
Volendo esprimere l’amore nutrito per la città che aveva alimentato il suo successo,
fece coniare tra gli anni ’50 e gli anni ’60 varie medaglie d’oro dedicate ai principali
monumenti milanesi. La partecipazione alla vita artistica cittadina era intensa:
spesso portava a casa quadri accettati da artisti in pagamento per i vestiti ed allacciò rapporti di
intensa amicizia con personalità del mondo dello spettacolo.
I nostri testimoni ricordano che Totò, nell’interpretare il ruolo di un manichino in uno spettacolo
al Mediolanum di corso Vittorio Emanuele, indossò, reclamizzandolo, l’impermeabile Larus.
Con Aldo Fabrizi la pubblicizzazione seguì percorsi più tortuosi: un tentativo marginale di collaborazione
commerciale tra Miani e Fabrizi si risolse in una causa per mancato pagamento dei
tessuti e portò alla condanna dell’attore. Con bonomia, Fabrizi disse a Miani che già la causa
era un compenso per il risalto dato dalla stampa quotidiana all’episodio.
Il successo dell’attività portò inevitabilmente con sé al diffondersi di forme di emulazione: negli
anni ’50 apparve il marchio Marus che vendeva impermeabili a costi più contenuti; dopo una
lunga battaglia giudiziaria che non portò ad alcun risultato, Guglielmo decise di modificare il
marchio in larusmiani mettendolo al riparo da ulteriori pericoli.
E’ negli anni ’60, cioè in una fase di
piena affermazione commerciale, che
Miani inizia un serrato assedio alla ditta
Zucca per ottenere il subentro nella
gestione del locale che i milanesi chiamavano
indifferentemente Camparino
o Zucca.
Il locale era passato nel ’19 dai
Campari alla famiglia Zucca e rappresentava
uno dei punti di ritrovo che
conferivano alla Galleria il ruolo di
salotto e di riferimento per personalità
della vita artistica, economica e politica.
La vicinanza ai punti topici della
città gli conferiva una centralità strategica;
la preziosa ristrutturazione del ‘15
nel segno dell’art nouveau aggiungeva
la gradevolezza estetica; qualità delle bevande e cura nella mescita chiudevano il cerchio facendo
del locale un angolo della socialità cittadina. Per usare l’efficace espressione dello stesso Miani,
quel luogo non era un bar: era un’istituzione ed aveva bisogno di un gestore che ne fosse consapevole.
Gli anni ’60, inoltre, segnarono l’inizio del degrado dei luoghi dell’incontro cittadino e, più ancora,
di una distrazione generale e di una sciatteria amministrativa che incideva pesantemente
sulla manutenzione di un monumento vivo come la Galleria. L’avvicendamento degli esercizi
commerciali e il mutamento della loro tipologia era un segno di questa trasformazione
e Guglielmo Miani fu pronto a coglierlo già al suo primo manifestarsi:
come ricorda il genero Orlando Chiari, “era un personaggio lungimirante; leggeva
il degrado della Galleria già nell’avvento del Motta. Si figuri se avesse visto i
Mc Donald’s”.
Se questi elementi aiutano a comprendere da un lato le motivazioni
dell’interesse che Miani, milanese adottivo e quindi
visceralmente pervaso di milanesità, poteva nutrire per il locale
e per la Galleria, altre vengono espresse da Teresa attraverso
una lettura interna delle dinamiche familiari: al volgere
degli anni ’60 i figli erano ben inseriti nella Larus e Riccardo, il
secondogenito, esprimeva una leadership che poteva essere
limitata dalla presenza paterna. Ecco allora che l’acquisizione
del locale diveniva il nuovo progetto di vita di un imprenditore
intenzionato a lasciare spazio ai figli. Orlando Chiari, ricorda
che le trattative e l’acquisto avvennero quasi di nascosto per
tema di reazioni familiari. Apparteneva, continua, a quella
generazione di imprenditori milanesi cui occorrevano due
minuti per capire se ciò che gli stavi proponendo era un affare
o no.
E’ peraltro in questa fase che Orlando Chiari, di professione
procuratore di Borsa, entrò in famiglia sposando
Teresa e lasciandosi coinvolgere nel giro di qualche anno
nelle attività dei Miani.
Guglielmo rilevò l’esercizio e lo gestì cercando di ingrandirlo
verso la Galleria.
Guglielmo Miani gestì il locale per quindici anni circa sino
alla morte intervenuta nell’87, e il suo cruccio fu quello di
non essere mai riuscito a dotare il locale di un respiro
maggiore e di servizi essenziali (tra i quali dei servizi igienici
adeguati).
Alla morte di Guglielmo, la gestione passò, per conto dei
quattro fratelli, a Iris che giunse a un accordo con il
Poligrafico dello Stato: il Poligrafico andò ad occupare i
locali di pertinenza del negozio larusmiani in Galleria, i nuovi
spazi consentirono di collegare con una scaletta i due piani
del negozio e ricavare un elegante ritrovo nelle sale superiori
che l’architetto Perego ha arredato richiamando gli stilemi decorativi
e i materiali del locale originario.
Nel luglio ’99, in seguito alla decisione tra i fratelli di ripartire le attività
della famiglia, la gestione del locale è stata assunta da Teresa
Miani e Orlando Chiari. A Riccardo è andata invece la larusmiani
ed egli continua la tradizione paterna con l’aiuto della moglie
Giovanna e del figlio Guglielmo. Adriana è coinvolta nelle attività
del marito, Ferruccio Busini, figlio dell’ex allenatore del Milan
Antonio, e ora è titolare della catena di negozi Mc Kenzy. Anche
qui i figli Umberto e Rossana sono inseriti pienamente nell’attività.
Iris, che ha gestito con efficacia il Caffè Miani rimodernandolo, è
ora impegnata a supporto dell’attività del marito, Bruno Ermolli.
A ben vedere, da quando i Miani sono subentrati alla Zucca, il
locale è passato di mano tre volte, eppure tutto è stato fatto nel
segno di una continuità dello stile che costituisce un raro esempio di interscambiabilità
dei ruoli imprenditoriali all’interno della famiglia; ed anche questo costituisce un elemento
di riflessione.
Oggi la gestione pone problemi di un certo peso. Come osserva Orlando Chiari, “se si
vuol gestire un locale come questo, non si può porre enfasi sul lucro. Bisogna avere
una grande ambizione per guidare questo locale e sentirsi gratificati nel poter dire lo
Zucca in Galleria è il mio locale”. Il dato economico deve fare i conti con il mantenimento
dello standard di qualità. La bontà dei prodotti serviti al bar o al ristorante deve
essere elevata e costante lo sforzo di ricerca che vi sta dietro. Le brioche giungono dal
forno prima ancora dell’apertura del bar grazie alla collaborazione del prospiciente
giornalaio; i salumi sono stati cercati in val Tidone; i formaggi in Valtellina e nella
Valsassina.
L’attenzione al prodotto deve sposarsi alla cura nel servizio: oggi, osserva Chiari, è
sempre più difficile trovare ragazzi che abbiano buone maniere, che percepiscano il
saluto come parte integrante del servizio al cliente, che siano disposti ad accettare il
tempo esteso dei locali pubblici. La libertà al sabato e alla domenica è generalmente la
prima informazione richiesta nei colloqui di lavoro e precede nettamente la stessa questione
del trattamento economico. A ciò si aggiunga, osserva Teresa Miani, un turn-
L’esterno del Caffè con i tavolini in Galleria
Disegno del negozio dal lato della Galleria
over che impedisce la strutturazione di un solido rapporto fiduciario: quando lavorava in
larusmiani era frequente il caso di persone che entravano da apprendisti e col tempo divenivano
dirigenti. Oggi, questo percorso è un’eccezione. L’intreccio di questi elementi di qualità
(gli alimenti, il servizio, la cura dell’arredo) costituisce condizione imprenscindibile per
restare fedeli alla tradizione dello Zucca in Galleria; tenerli congiunti in modo continuativo
rappresenta la scommessa quotidiana dell’imprenditore che egli vince attingendo in modo
esasperato alla propria flessibilità. Un orario di lavoro che va dalle 7 alle 21 costituisce la
norma, né le funzioni svolte sono delegabili: il giornalista, l’imprenditore, la personalità che
si presenta per concordare un incontro o un’intervista si aspetta di instaurare un rapporto
preferenziale con il titolare e ciò si risolve in un’attività di pubbliche relazioni senza soluzioni
di continuità. In quest’essenzialità del proprio ruolo sta la chiave della gratificazione dell’imprenditore
che trova nelle qualità dell’esercizio un’estensione degli elementi positivi della
propria personalità. Non a caso ritornano costantemente nella testimonianza concetti tra
loro apparentemente lontani, ma consequenzialmente incardinati: passione, malattia, divertimento.
Il livello di impegno è tale da far sorgere il dubbio che la responsabilità imprenditoriale
costituisca un lascito troppo pesante da trasmettere ai propri figli e questo tema,
secondo Chiari, costituisce elemento di seria riflessione per molti imprenditori. E’ proprio
sul tema dell’indisgiungibilità tra onere e piacere nell’opera dell’imprenditore che il racconto
si arricchisce di un secondo e inaspettato capitolo che fa da corollario alla vicenda dello
Zucca in Galleria. Nel ‘78 Teresa si risolse ad acquistare uno stabile fatiscente
sito in via Santo Spirito 17. L’idea era quella di costruire un’iniziativa
imprenditoriale propria (“mi son detta, quando invecchio non voglio che i miei
nipoti si chiedano cosa ci fa una persona di quell’età in azienda”) attraverso
la quale esprimere la propria originalità gestionale. Pian piano l’idea si concretizzò
nella realizzazione di un residence che il padre Guglielmo fece in
tempo a vedere inaugurato nell’87, poco prima di morire. Per poter svolgere
la funzione di titolare, Teresa tornò in aula a frequentare i corsi della Scuola
Superiore del Commercio (“quando andavo in viale Murillo, data l’età mi
scambiavano per un’insegnante”) e conseguire l’iscrizione al Rec. Superati
gli esami, scoprì che la gestione di un residence in Italia presentava larghi
margini di indeterminatezza: a differenza degli alberghi, la normativa non
prevedeva il rilascio di alcuna licenza. La neonata associazione di settore,
Rescasa, la esortò a non preoccuparsi e ad accettare, come tutti gli altri proprietari,
la situazione di fatto. Teresa Miani, viceversa, rifiutò la situazione di
vuoto normativo e collaborò con i funzionari del Comune di Milano alla predisposizione
di una procedura affidabile che ebbe l’onore di varare per prima.
Oggi il residence di via Santo Spirito rappresenta un angolo silenzioso e
impeccabile per clienti capaci di apprezzare discrezione e qualità del servizio.
La cura nei particolari e il ricorso a materiali di pregio (i pavimenti in noce
italico, il rifiuto di vernici e moquette per evitare allergie, il ricorso a colori
solari) si accompagnano alla piena attenzione ai desideri e alle caratteristiche degli
ospiti ai quali si preme dare l’impressione di disporre di una casa, non di un soggiorno
casuale e precario. L’attenzione alla privacy è elevata e questo articolo darà unicamente
conto del nome di Marcello Mastroianni il quale adorava soprattutto la possibilità di
risiedere nel centro di Milano senza essere assediato da giornalisti e ammiratrici. Il
residence è certo un’attività commerciale, ma, come dice Teresa, “è una cosa per me”,
è una realizzazione cui tiene al punto da selezionare, ove possibile, la clientela.
Chiedendo a Teresa Miani quale motivo l’abbia spinta a passare dalla larusmiani a
un’attività così diversa qual è la gestione del residence, si ottiene la risposta che si tratta
di un lavoro quasi naturale per una donna che ama la cura della casa. La risposta
ha indubbiamente una sua forza. Consentiteci tuttavia di fare affiorare altre motivazioni
partendo dagli elementi di continuità che legano i comportamenti
imprenditoriali di Guglielmo e Teresa nonostante un ventennio di
distanza: in primo luogo c’è il desiderio di iniziare ex-novo un’avventura
nella quale giocarsi a fondo, anche sfidando l’assunto generale che
vuole l’imprenditore ancorato a una formazione specifica. In secondo
luogo, c’è la volontà di costruire qualcosa di identificabile univocamente
nel contenuto e nello stile. In altri termini c’è l’esigenza istintiva
di fondare una tradizione. L’atteggiamento di Teresa Miani ripete per
molti versi il salto operato da Guglielmo nel 1967 ed è testimonianza
di un imprinting formativo che pure a distanza di tempo si dimostra capace
di generare innovazione.